SManalysis
GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO
Published on 17 Maggio 2020 in SICUREZZA
In Albania precede lentamente la crescita dello stato democratico, ostacolata da una crisi economica di difficile superamento e dai problemi di sicurezza e legalità che affliggono il paese. Li affrontiamo in questo dossier realizzato da Polo de donno.
TERRORISMOLA PIAGA DEL RADICALISMO ISLAMICO: La penetrazione jihadista nei Balcani e più in particolare in Albania non si può inquadrare entro uno schema di azione generalizzato ma si basa su specifiche dinamiche che riguardano la debolezza degli assetti statali di controllo di alcune realtà regionali. Come spiega Giovanni Giacalone su “InsideOver”, laddove lo Stato è debole dal punto di vista socio-economico e carente o assente nell’azione di monitoraggio del territorio, trovano terreno fertile le cellule terroristiche. Nel caso albanese si pensava che la dottrina dell’ateismo di Stato, imposta da Hoxha nel 1967, avrebbe scoraggiato la formazione di nuclei religiosi radicali; in realtà tale convinzione non risulta corroborata dai fatti così come è dubbia la tesi opposta, la quale vede la nascita di un focolaio jihadista come reazione uguale e contraria alla visione di Hoxha.
In maniera più verosimile, continua Giacalone, tali nuclei sono stati indirettamente favoriti dal clima di tolleranza religiosa che l’intervento comunista ha favorito, all’interno di una comunità a maggioranza musulmana ma con una buona presenza di cattolici, ortodossi e bektashi. Si può dire che il clima di tolleranza reciproca abbia favorito lo sfumarsi del ruolo prioritario della religione in favore del concetto di Nazione o di “albanesità”. L’islamismo di stampo radicale in Albania è un fenomeno di natura esogena, stimolato dalle correnti religiose del Golfo, le quali mirano a diffondere wahabismo e salafismo tramite finanziamenti in denaro di moschee o centri culturali e l’indottrinamento degli imam locali. Come spiega Giacalone, la comunità islamica albanese ha sempre collaborato con le forze di sicurezza per allontanare le frange più radicali; dall’altra parte però esiste il problema dei predicatori di odio più accesi i quali, tramite il web ed i centri islamici non riconosciuti, diffondono i messaggi più radicali del wahabismo e del salafismo (messaggi di intolleranza e prevaricazione).
Nel 2014 ci fu una importante operazione di polizia che sgominò una rete jihadista di reclutatori dell’ISIS, capeggiata proprio dai due imam albanesi Genci Balla e Bujar Hysa. Le zone dove si concentra il proselitismo di questi settori radicali sono comprese nella periferia albanese: Elbasan, Cerrik, Kavaja, Librazhd, Pogradec, Scutari, come anche la periferia di Tirana. Come si è potuto osservare in Francia, nel terribile periodo recente delle stragi dell’ISIS, i soggetti presi di mira dalle sirene propagandistiche jihadiste sono giovani in precarie condizioni economiche e sociali (il tipo di individuo povero delle banlieue parigine). Un’ altra fonte di infiltrazione islamista nel paese è costituita dalla Turchia di Erdogan, legata a doppio filo con i Fratelli Musulmani, la quale utilizza il suo potere culturale e politico; è avvenuto, come riporta Giacalone, con la costruzione della più grande moschea dei Balcani a Tirana (circa 32000 metri quadrati), dove gli Imam pronunciano sermoni identici a quelli dei paesi di origine, a forti tinte politiche oltre che ideologico-religiose.
Ricordiamo in secondo luogo che dal 2016 sul suolo albanese si è insediato il quartier generale dei Mujahideen del Popolo d’Iran (MeK), a Manez, vicino Durazzo; da un punto di vista storico questo gruppo aveva sostenuto la battaglia contro lo Shah nel 1963 e poi aveva partecipato alla rivoluzione khomeinista del 1979. Da un punto di vista ideologico si tratta di un sincretismo fra marxismo, femminismo ed islamismo, posizioni che hanno fatto distanziare il gruppo dagli ayatollah e lo hanno fatto avvicinare al regime iracheno di Saddam Hussein. Era stato inserito nella “lista nera” da UE, Usa, Canada e Gran Bretagna per poi essere sdoganato dal Segretario di Stato Hillary Clinton durante il primo mandato presidenziale di Obama.
Visto come portatore di democrazia e libertà in Iran dalla sponda americana ed al contrario come organizzazione terroristica da Teheran, certamente trattasi di un inquilino estremamente scomodo per l’Albania, soprattutto in un contesto di multietnicità come quello balcanico. Come viene riportato all’interno di un articolo di Margherita Furlan sulla rivista “Antimafia Duemila”, il Mek è stato coadiuvato in maniera consistente dai servizi segreti americani: per quale obiettivo e con quali compiti? Alcune fonti politiche albanesi hanno avanzato l’ipotesi di uno scambio: dato che “gli americani ci hanno dato il Kosovo, ora dobbiamo dare loro qualcosa in cambio”.
Lo storico canadese-albanese Olsi Jazexhi ha addirittura avanzato l’ipotesi che “l’America volesse trasformare l’Albania in un rifugio sicuro per il jihadismo internazionale, un secondo Afghanistan nel cuore dell’Europa”. Si stima che siano circa 4400 i componenti del Mek in Albania, con un gruppo di militanti (secondo un documentario di Al-Jazeera) istruito alle tecniche della diversione informatico-comunicativa in funzione anti-iraniana. Si tratterebbe di una “cyber-jihad” come dice la Furlan, diretta a diffondere false notizie sia in Iran, sia in Europa al fine di screditare il regime di Teheran come possibile interlocutore.
Secondo un articolo datato 2015, comparso sull’”Huffington Post”, l’Albania sarebbe diventata un centro di smistamento per jihadisti provenienti da paesi limitrofi, tra cui l’Italia; infatti i nuclei salafiti presenti nel distretto di Librazdhi e in quello di Elbasan da anni offrono appoggio ed ospitalità ai volontari arrivati per via aerea o via mare (al porto di Durazzo), diretti in Siria dopo un transito in Turchia.
FOREIGN FIGHTERS: Nel ramo dell’analisi delle minacce terroristiche il problema cruciale per il paese balcanico risulta essere quello dei cosiddetti “foreign fighters”. Come sappiamo lo scoppio della guerra in Siria nel 2011 ha prodotto degli effetti e delle ripercussioni non solo sui paesi arabi limitrofi ma anche sulla penisola balcanica. In un articolo del 2019 su “InsideOver”, Giovanni Giacalone spiega come una tale mobilitazione di foreign fighters balcanici per un conflitto lontano non si fosse mai vista nella storia; un segnale della capacità propagandistica del jihadismo nella penisola. Bisogna dividere il fenomeno dei combattenti all’estero fra viaggi di andata e di ritorno. Si stima infatti che l’Albania abbia mobilitato circa 180-200 foreign fighters jihadisti, la metà circa rispetto al Kosovo; considerato il dato di una popolazione di 2.873 milioni di persone si può arguire che il paese abbia ben gestito il problema dei flussi terroristici verso l’esterno. Il “Country report on terrorism”, stilato dal Dipartimento di Stato americano nel 2018, spiega come l’Albania, grazie anche ad una collaborazione ad alti livelli con le agenzie statunitensi, abbia ottenuto buoni risultati, certificati dal Personal Identification Secure Comparison and Evaluation System (Pisces) per proteggere le frontiere albanesi, oltre ai controlli nei nodi marittimi e aeroportuali.
Se guardiamo nel complesso alla regione balcanica, dallo scoppio della guerra in Siria sono partite più di mille persone delle quali il 67% uomini, il 15% donne e il 18% bambini. Di questi, 260 combattenti sono morti sui teatri di guerra, 500 si trovano ancora in Siria e in Iraq e 460 circa hanno fatto ritorno nei rispettivi paesi di origine. Quest’ultimo dato fa della regione balcanica occidentale l’area con il maggior numero di combattenti “di ritorno”. Il fenomeno è rimasto circoscritto a Kosovo, Albania, Macedonia del Nord e Bosnia, con un piccolo gruppo di militanti albanesi ancora impegnati nello scenario siriano; tuttavia non bisogna sottovalutarne l’impatto poiché, come sostiene Giacalone, gli individui di rientro da Siria ed Iraq possono essere stati coinvolti in maniera più o meno profonda da Isis ed Al-Qaeda. Per esempio la moglie di un jihadista potrebbe aver svolto un ruolo trascurabile rispetto ad un marito pienamente inserito nelle operazioni terroristiche; così come non si deve trascurare il livello di indottrinamento che potrebbero aver subito i minori, alcuni dei quali coinvolti addirittura nell’esecuzione di prigionieri.
Sebbene dunque l’Albania, più di altri compagni di viaggio balcanici, sembra aver contenuto la minaccia del terrorismo islamico (trascurando il nucleo iraniano prima citato, del quale non si ha un profilo ben delineato), anche attraverso il ricorso ai sistemi di prevenzione statunitensi, dall’altra parte bisogna tenere sotto stretta sorveglianza i luoghi di culto come possibili veicoli di messaggi politici o di radicalismo religioso intollerante ed anche il ruolo di Internet, strumento capace di rendere fluide, rapide e difficilmente tracciabili le informazioni criminali.
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